Recensione:
Nel ’45 la deportazione della minoranza tedesco-romena. Per Leopold il lager continua nel gulag
Loewenthal Elena, Tuttolibri - La Stampa
Nel gennaio del 1945 la guerra non è ancora finita, ma forse proprio per questo i suoi miasmi sono più tossici che mai, carichi di quel sentore che l'ultima agonia porta con sé per gli sconfitti - ansiosi di trascinare nella disfatta il maggior numero di vittime. Ma carichi soprattutto di un folle accanimento che accomuna tutta quell'umanità, fra vincitori e vinti. Nel gennaio del 1945 il regime sovietico decide la deportazione della minoranza romeno-tedesca nei campi di lavoro forzato dell'Ucraina. I condannati partono ignari o quasi di quel che li attende. Andranno incontro a un lager terribile, che per il diciassettenne Leopold Auberg durerà cinque anni, e un'intera vita. Herta Müller, premio Nobel per la letteratura nel 2009, è nata nel Banato romeno, regione al confine fra Serbia, Romania e Ungheria, nel contesto della minoranza tedesca che viveva da quelle parti. Nel 1987 è dovuta fuggire per aver pubblicamente criticato la dittatura romena. Pur essendo venuta al mondo dopo la guerra, precisamente nel 1953, ha vissuto anche lei l'esperienza drammatica dell'esilio e dell'estraniamento da sé, che ha inevitabilmente creato una dolorosa affinità con i «diseredati» della generazione precedente. L'altalena del respiro era dunque destinato a essere un libro a quattro mani, frutto di un'esperienza congiunta: da una parte lei, Herta Müller, dall'altra il poeta Oskar Pastior, alter ego di colui che diventerà il protagonista. Dopo la morte di Pastior, nel 2006, la scrittrice ha proseguito da sola in questo cammino. "L'altalena del respiro" è un romanzo duro, terribile. C'è qui una tensione costante, che il lettore sente fisicamente sotto la pelle come un doloroso tiranervo, a tratti uno spasmo. Leopold viene prelevato da casa, si porta con sé una valigia ricavata dalla scatola di un grammofono, è armato quasi di speranze: se non altro di cambiare vita. Ha voglia di voltare pagina, come capita non di rado insieme alla sconsideratezza dei diciassette anni. Ma appena giunto a destinazione, anzi ancora durante il crudele viaggio, viene la fame. Quella, e quasi soltanto quella. E' la fame la vera protagonista del libro, dove il Lager è esposto con un'incisività sconcertante, quasi senza narrazione. Perché lì non c'è storia se non quella della fame. E della sopravvivenza: «La vergogna e l'orrore non sono sentimenti che ci si possa permettere. Si agisce con costante indifferenza, forse con sfiduciata soddisfazione. Non c'è in questo nessuna gioia maligna. Credo che quanto minore sia il timore dei morti, tanto più si sia legati alla vita». E' davvero un romanzo fortemente ancorato a una realtà che detta le parole come un imperativo categorico cui non è possibile sottrarsi. Herta Müller asseconda con grande precisione ed efficacia questa narrativa del Lager, che in fondo è l'unica possibile, di quel luogo. E lo fa con il virtuosismo apparentemente impossibile di un io narrante in prima persona, anche se non è lei: «Io invece ballo e sono un forzato e porto pidocchi nella pufoaika e pezze per i piedi puzzolenti nelle calosce di gomma, e la sala da ballo là a casa e il vuoto nello stomaco mi fanno venire le vertigini». Finito di leggere, arriva una sofferta intuizione. Una specie di certezza. Qui non c'era il campo di sterminio, c'era un'altra cosa, diversa: il Lager sovietico. C'era, sì, il caso limite dell'ebreo che qui viene deportato in quanto tedesco... una sorta di estremo emblema della vittima. Questo Lager non è Auschwitz, certo. Eppure, leggendo L'altalena del respiro si ha la netta percezione che il male è dotato di una strabiliante, tremenda proprietà commutativa: cambiano i fattori, ma la sottrazione di umanità è purtroppo sempre eguale.
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